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Ispirato al docufilm del 2022, Las Leonas, la Coppa del Mondo è una storia di sorellanza, di vite che vogliono raccontarsi, anche attraverso un gol.
Donne: donne che combattono, che non mollano, che ci credono. Insomma, normale amministrazione. Cosa c’è di nuovo? Che le storie vengono raccontate. E viene fatto attraverso il ruggito di tante leonesse.
Il progetto nasce nel 2022 con l’omonimo docufilm prodotto dalla Sacher Film di Nanni Moretti con Rai Cinema, presentato a Venezia alle Giornate degli Autori 2022.
Le stesse registe del lungometraggio, Isabel Achaval e Chiara Bondì, hanno poi deciso di trarne una docuserie per la Rai in 4 episodi, con una coproduzione di 11 Marzo Film e Rai Documentari in collaborazione con Matteo Levi,
È stata messa in onda il 28 dicembre e il 4 gennaio scorsi su Rai 3 alle 15.00, ma è ancora disponibile su RaiPlay.
La docuserie tratta di un torneo di calcio a cui partecipano otto squadre femminili, composte da giocatrici provenienti da diverse parti del globo.
In ballo c’è la Coppa del Mondo!
Quattro formazioni si sfidano a Roma, le altre quattro a Torino.
La finale si disputa nella Capitale.
Tra queste c’è l’Italia, il Brasile, l’Iran, l’Argentina.
La telecamera spazia oltre il rettangolo di gioco, intrecciandosi con le vicende personali, i percorsi e le esperienze di vita delle protagoniste.
Tanti giornali o agenzie stampa ne hanno parlato in termini di riscatto sociale.
A un primo sguardo veloce può sembrare: le storie sono tutte di donne, spesso madri single e fuggite a situazioni difficile e tragiche. Sono immigrate, che vivono in condizioni di disagio, campando di espedienti.
Come annuncia a caratteri cubitali l’Ansa parlando della serie Las Leonas, la Coppa del Mondo per lo più sono colf e badanti, è innegabile.
Ma guardando con occhio più attento non c’è solo questo, anzi, è una parte marginale della narrazione.
Al centro c’è il calcio, nella sua declinazione più bella, ancestrale e poetica.
Il calcio per queste donne è aggregazione, è evasione, è amicizia, è sorellanza, è trovare se stesse e potersi esprimere liberamente.
Non per riscattarsi perché un riscatto prevederebbe un’ingiustizia vissuta. Che a volte c’è, ma loro sanno andare oltre.
Per loro questa è una scelta: loro vogliono giocare e lo fanno perché sono libere.
Ovviamente la commozione è dietro l’angolo, rischiando spesso di cadere nel patetico.
Ma sono le protagoniste a salvare da questa caduta di stile, con la loro dignità e con l’amore per questo sport.
Infatti il calcio è unione: con le proprie radici, con le altre donne, con il proprio essere.
Sul campo le calciatrici, tutte a livello amatoriale, possono esprimere liberamente loro stesse.
È lo sport a unire, tanto che molte calciatrici non sono necessariamente della stessa nazionalità della maglia che indossano. Il senso di appartenenza va al di là di un dato anagrafico.
Questo si nota e viene sottolineato, con qualche insistenza, soprattutto nel caso della nazionale iraniana.
Tante storie, una storia: tante donne che hanno voglia di raccontarsi, uno sport che si racconta da solo.
È una storia di donne raccontata da donne, dunque per fortuna si sfugge un paternalismo stile “fardello dell’uomo bianco” alla Kipling.
Le donne si reinventano, piangono, si asciugano le lacrime e ripartono. Proprio come su un campo da gioco.
La vita è come una partita di calcio: a volte si difende, altre si attacca, altre volte si dribbla, si colpisce di testa e non c’è la certezza di segnare un punto.
Ma non ci si arrende mai, ne vale la pena giocare quella partita.
Il messaggio della docuserie, in barba ai titoli di certi articoli, è molto semplice. Non è che badanti e colf posano i loro spazzoloni e scendono in campo ancora col grembiule addosso. Queste donne non sono il loro lavoro, queste donne sono donne con carattere, che giocano a calcio non per un riscatto personale. Ma “banalmente” perché a loro piace.
Aggiornato al 26/02/2025 15:48
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