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Antonio Conte e “il paradosso di Prezzolini”

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Napoli-Conte

In attesa di appurare se si sia trattato di “mani avantismo” o meno, l’intervista rilasciata da Antonio Conte alla Rai dovrebbe far riflettere.

Antonio Conte si sa com’è fatto. Se si vince è un fenomeno lui, se si perde la squadra non era all’altezza e la colpa è tutta della società. E’ un genio della comunicazione, che intelaia una narrativa mediatica con la stessa eloquenza con la quale Arianna tesseva la propria tela nel Labirinto del Minotauro.

Il culto della personalità che è riuscito a creare attorno a sé ha sortito lo straordinario effetto di trasformare le sconfitte in vittorie e i fallimenti in successi. All’Inter riuscì a convincere Marotta a non pronunciare mai la parola “scudetto” per un anno e mezzo. Al Tottenham riuscì a obbligare la dirigenza a licenziarlo, con uno sfogo in conferenza stampa che rimarrà nella storia, ma continuando comunque a percepire un regolare (e lauto) stipendio.

Per questa ragione le frasi pronunciate nei giorni scorsi, durante un’intervista esclusiva concessa alla Rai, potrebbero sembrare il più classico dei tentativi di “mettere le mani avanti”: qualora il suo Napoli non fosse in grado di rispettare le enormi aspettative che gravano su di loro. Tuttavia, è davvero solo questo?

Se un uomo come Conte, che sa perfettamente come si vince dato che (e questo è un fatto incontrovertibile, a prescindere da come la si pensi) ha vinto praticamente ovunque è andato, ha individuato in maniera così repentina e lapidaria qual è stato il problema degli azzurri nella scorsa stagione, davvero non vale la pena di provare a vederci qualcosa in più di un mero “mani avantismo” in perfetto stile contiano?

Il paradosso di Prezzolini

“Se volessi esprimermi paradossalmente, direi che Caporetto è stata una vittoria e Vittorio Veneto una sconfitta per l’Italia.” Parlava così Giuseppe Prezzolini, controverso e discusso intellettuale del novecento, nel suo celebre libro (“Dopo Caporetto, Vittorio Veneto”) sulla disfatta italiana (ma non solo) a Caporetto.

Se volessimo cercare di trovare un’origine all’aforisma “S’impara più dalle sconfitte che non dalle vittorie“, una di quelle frasi celebri che tutti conoscono ma di cui nessuno conosce la provenienza, potremmo ricercarla proprio in questa analisi di Prezzolini. Volendo disegnare un parallelismo con la recente storia partenopea, si potrebbe affermare che lo scudetto vinto è l’equivalente della battaglia di Vittorio Veneto mentre la scorsa stagione ha i contorni della Caporetto calcistica.

Per i meno appassionati di storia: la battaglia di Vittorio Veneto è stata l’ultima fase del conflitto italo-austriaco nella Prima Guerra Mondiale, conclusasi con la Vittoria di Pirro italiana. Una vittoria che è stata l’anticamera dell’armistizio di Villa Giusti, con il quale l’Italia sperava di rafforzare la sua posizione alla Conferenza di Pace di Versailles del 1919. Com’è andata a finire lo sappiamo. Vladimir Lenin rese pubblico il Patto di Londra, che Woodrow Wilson si rifiutò di riconoscere. D’Annunzio coniò il termine “vittoria mutilata” e il revanscismo italiano deflagrò nella metastasi fascista.

Napoli, Conte

Conte conferma: quel Napoli come il Leicester di Ranieri

Per quanto paradossale possa sembrare, è lecito affermare che lo scudetto vinto da Luciano Spalletti sia stata l’origine della sciagurata stagione appena trascorsa. Lo pensa Antonio Conte, che ha tutto l’interesse nel non piazzare l’asticella delle aspettative sulla prima posizione, ma può legittimamente pensarlo chiunque abbia osservato con occhio critico la differenza fra le due versioni del Napoli.

La sensazione di appagamento era palpabile, ma soprattutto è stata tangibile una sopravvalutazione di sé stessi da parte dei calciatori azzurri. Mancava la volontà di fare quel metro in più per aiutare il proprio compagno, che è stata la formula magica necessaria a realizzare quella macchina perfetta: altro che il bel gioco e corbellerie varie.

Una squadra che fin lì si era sentita invincibile si è riscoperta improvvisamente fragile, rendendosi conto che le certezze costruite nell’arco di una stagione intera erano poco più che una mera illusione. Conte ha battuto molto su due punti focali: la necessità di riscoprirsi umili e di riconoscere i propri limiti.

L’analisi fatta dal sottoscritto a metà della scorsa stagione, ovvero il paragone fra il Leicester di Ranieri e il Napoli di Spalletti, è stata indirettamente confermata dallo stesso Conte. Con la stampa italiana, che ha contribuito in maniera attiva a questa allucinazione, che ancora oggi (nonostante quel Napoli fosse nettamente inferiore a quel Leicester) si guarda bene dal chiamare le cose con il loro nome: ovvero “miracolo” sportivo.

Per i tifosi azzurri l’augurio è che i parallelismi fra volpi e asini finiscano qui. Subito dopo il disastro del Ranieri-bis, il Leicester si affidò a Claude Puel. Un allenatore che tentò di esautorare tutti i reduci del 2016 e di eseguire una damnatio memoriae su quell’impresa, venendo rigettato dallo spogliatoio. Conte ha di certo più carisma e più credibilità del transalpino e lo dimostra il modo in cui ha gestito i casi Di Lorenzo e Kvaratskhelia, ma venire a patti con l’ego di miliardari viziati non è mai semplice.

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Thiago Motta gioca come Allegri: no alla rivoluzione, sì alla continuità

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Allegri

Dopo le prime tre giornate di Serie A, è già possibile tirare le primissime conclusioni su Thiago Motta e sulla sua Juventus.

Sebbene sia prematuro tirare qualsivoglia conclusione a Settembre, finora la tanto agognata “rivoluzione” in casa Juventus non c’è stata. E questo è un bene, in quanto, come ho spiegato in un vecchio editoriale, Torino è il peggior luogo in assoluto dove fare le rivoluzioni.

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Thiago Motta come Allegri: il confronto

Una squadra che arriva terza in classifica e che vince la Coppa Italia non ha bisogno di essere rivoluzionata e questo è il primo punto fondamentale della disamina. La belante mandria giochista ha accolto Thiago Motta come “il nuovo Sacchi“, dimostrando (non che ce ne fosse bisogno) di giudicare senza guardare le partite.

Thiago Motta è un difensivista, nell’accezione più positiva possibile del termine. Ovvero pensa prima di tutto a non prendere gol, come tutti i grandi allenatori del mondo. Persino Guardiola, idolo della scuola giochista, cura in maniera maniacale la fase difensiva: poiché non prendere gol è la base per vincere le partite.

Lo dimostra anche questo avvio di campionato, dove al primo posto in classifica ci sono le squadre che hanno subito meno gol delle altre. In questo fondamentale, l’italo-brasiliano ha fatto (sin qui) addirittura meglio del suo predecessore: la sua è infatti l’unica squadra italiana a non aver ancora subito gol.

Juventus-Roma, Thiago Motta

THIAGO MOTTA PUNTA IL DITO ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )

Da Bologna a Torino: Thiago non è cambiato

Allo stesso punto del campionato, la Juventus di Allegri aveva subito un gol in più di quella di Thiago ma aveva segnato lo stesso numero di gol. Questo per spegnere sul nascere i bollori di chi, dopo due 3-0 inferti a due squadre in lotta per non retrocedere, gridava già alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Dopo un inizio accidentato, in cui subì 4 gol nelle prime 3 partite, il Bologna di Motta fece registrare quattro clean sheet consecutivi: compresi tre zero a zero di fila. Immaginate se tre zero a zero consecutivi li avesse fatti Allegri con la Juventus: come minimo un’interrogazione parlamentare. Li fa Motta e “gioca bene“.

Il Bologna ha concluso la scorsa Serie A con 32 gol subiti (terza miglior difesa, un solo gol subito in meno della Juventus) e con gli stessi gol fatti della Vecchia Signora: ovvero 54. 17 invece i clean sheet (13 per Skorupski e 4 per Ravaglia) mentre 16 son stati quelli della Juventus: 15 per Szczesny e 1 per Perin.

Thiago Motta, Cristiano Giuntoli

Thiago Motta “smaschera” le contraddizioni dei giochisti

Il dato più interessante, però, è quello relativo al possesso palla. Chi si aspettava una Juventus arrembante e sempre pronta a schiacciare l’avversario nella propria area di rigore sarà probabilmente rimasto deluso. Dopo le prime tre giornate, la Juventus è settima per possesso palla medio: con un dato del 55,3%.

Un dato sicuramente più alto rispetto a quello dell’anno scorso (la Juventus chiuse 12esima con il 48,5%), anche se con un campione statistico decisamente più ampio, ma che non mostra un’inversione di tendenza. Il ché dimostra una verità lapalissiana, finora cocciutamente rifiutata dai giochisti, ovvero che con questo centrocampo non è possibile far giocare la Juventus differentemente.

E se è in parte vero che Thiago Motta in queste prime tre giornate sta giocando con gli stessi giocatori dell’anno scorso, di fatto non ha ancora inserito a pieno regime nessuno dei nuovi acquisti, è altrettanto vero che rispetto ad Allegri ha un Fagioli in più. Che certamente non sarà Douglas Luiz o Koopmeiners, ma (con il dovuto rispetto) nemmeno McKennie o Nicolussi Caviglia.

Il progetto che Thiago Motta intende impostare alla Juventus appare chiaro e cristallino. Ripartire dall’ottima base che Allegri gli ha lasciato, per poi inserire gradualmente i nuovi e portare la proposta tecnica bianconera al Next Level. L’italo-brasiliano e il labronico (che, ricordiamolo, chiese Kroos proprio in funzione di questo cambio pelle) condividono la stessa visione. Thiago probabilmente porterà i risultati sperati, perché è bravissimo, ma con questa campagna acquisti li avrebbe portati anche Allegri.

Il ché testimonia, ancora una volta, come la scelta di far fuori Allegri non avesse una natura tecnico-tattica, ma “politica”. La qualità del gioco non c’entra nulla, poiché questa dicotomia fra giochisti e risultatisti esiste soltanto nei salotti e sui social. Nel calcio vero, quello in cui girano miliardi e miliardi di euro ogni anno, le società vogliono solo vincere. Soprattutto alla Juventus. Soprattutto a Torino, dove, storicamente, le rivoluzioni (di nessun tipo) non hanno mai attecchito.

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Saudi Pro League, la bolla saudita è già scoppiata

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Saudi Pro League, Cristiano Ronaldo

L’esperimento Saudi Pro League è tecnicamente fallito, ma deve essere tenuto in vita “artificialmente”: almeno fino al 2034.

Avete presente l’Ucraina? Ovvero un paese virtualmente fallito, ma tenuto artificialmente in vita dai denari americani per motivi propagandistici? Ecco, il campionato saudita è praticamente la stessa cosa.

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Saudi Pro League, progetto a tempo: obiettivo “Mondiale”

Se la data di scadenza appiccicata sulla fronte di Kiev è il Novembre del 2024, periodo in cui si terranno le elezioni presidenziali americane, quello della Saudi Pro League è il 2034. Non si tratta (ovviamente) di un problema economico in questo caso, ma che l’esperimento saudita fosse a scadenza lo si sapeva già.

Parimenti a quanto fatto dal Qatar, che ha (vanamente) cercato di “ripulire” la propria immagine in vista dei Mondiali del 2022, il progetto Saudita prevede la sponsorizzazione del proprio paese (in maniera particolare utilizzando il calcio come veicolo) in vista dei Mondiali del 2034: assegnati proprio al paese arabo.

Tante le scelte commerciali che sono andate in questo senso. Dal tentativo di restaurare la Nazionale dell’Arabia Saudita, affidandola a Roberto Mancini, passando per i tanti campioni convinti a suon di milioni ad andare a giocare in Arabia. Tuttavia, nonostante i numerosi investimenti, il progetto saudita fatica a carburare.

Saudi Pro League

I club sauditi hanno dimezzato gli investimenti sul mercato

Partiamo dai numeri. La scorsa estate, ovvero quella del “lancio” del progetto saudita in quanto immediatamente successiva allo sbarco in Oriente di Cristiano Ronaldo, le squadre saudite hanno mosso quasi un miliardo di euro sul mercato. Un flusso di denari sterminato, che portò in molti a vedere nella Saudi Pro League un campionato destinato a diventare, nel giro di un paio d’anni, fra i migliori al mondo.

Molte scelte di mercato, fra cui certe clausole folli e al limite dell’irragionevole come quella con cui il Napoli si è legato mani e piedi a Victor Osimhen, sono state fatte e pensate in funzione di questo mare magnum: che si pensava inesauribile. Eppure questa estate i club sauditi hanno praticamente dimezzato la propria capacità di spesa, facendo registrare uscite inferiori al mezzo miliardo di euro.

Pensate che l’Al-Hilal, l’anno scorso una delle regine del mercato (terza squadra al mondo per investimenti profusi dopo Chelsea e PSG), quest’anno ha visto ridursi la propria capacità di spesa praticamente ad un terzo dell’anno precedente: passando da oltre 370 milioni spesi sul mercato a 93. 

Saudi Pro League

La Saudi Pro League è un flop: non la guarda nessuno

Un’inversione di tendenza che non si spiega soltanto con la necessità (relativa) di calmierare gli investimenti, ma anche (e soprattutto) con la maggiore e crescente riluttanza dei calciatori importanti ad accettare la destinazione saudita. La Saudi Pro League (per ora) non è diventata quello che tutti si aspettavano e, se questo in parte era fisiologico e prevedibile, le prospettive non sono certo delle più incoraggianti.

Del resto fu lo stesso Cristiano Ronaldo, lo scorso Gennaio, a dire che la Saudi Pro League fosse già uno dei primi cinque campionati al mondo. Addirittura anteponendola alla Ligue 1 nella sua personalissima graduatoria, stilata non si capisce sulla base di quali parametri. Tuttavia, la realtà dei fatti è ben diversa da quella sbandierata dal pensionato portoghese e si riflette nella totale incapacità delle autorità saudite di rendere il proprio prodotto attrattivo.

La Saudi Pro League non la guarda letteralmente nessuno (almeno il campionato francese mezzo miliardo di euro l’anno in diritti televisivi li muove ancora, caro Cristiano), né in patria né tantomeno all’estero, e gli stadi sono sempre tristemente vuoti. Non siamo ancora ai livelli del Qatar, dove persone raccattate casualmente per strada venivano pagate per assistere alle partite facendo finta di essere tifosi, ma non siamo troppo lontani.

Per questo motivo i rappresentanti delle istituzioni saudite, nei prossimi giorni, inizieranno un lungo pellegrinaggio in giro per l’Europa, nella speranza di trovare qualcuno che gli insegni come fare impresa sportiva. E, per incentivare i professionisti europei a rispondere al loro disperato appello, sono disposti a mettere sul piatto sgravi economici e un regime fiscale particolarmente agevolato.

Si parla di: zero tasse sulle persone fisiche; aliquota unica del 20% per le società; Iva al 15%. E, grazie ad accordi bilaterali stipulati con molti paesi (Italia compresa), non è prevista doppia tassazione in patria. Nessuno può sapere se queste mosse salveranno il progetto saudita, ma ciò che appare certo è che difficilmente la Saudi Pro League si trasformerà nel tanto auspicato Nirvana calcistico.

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Juventus e Napoli fra le squadre che hanno speso di più in Europa: la classifica completa

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Juventus

Il calciomercato volge al termine ed è il momento di tirare le somme: letteralmente. Le squadre che hanno speso di più nei TOP 5 Campionati Europei.

I sauditi si sono dati una calmata da soli, in Inghilterra ci ha pensato il PSR. Senza il fiume di denaro proveniente dall’Arabia e dalla terra di Sua Maestà, il calciomercato ha visto drasticamente ridurre la propria capacità di spesa.

Calciomercato, la TOP 10 degli “spendaccioni”

Per la sorpresa di nessuno, il Chelsea (anche quest’anno) è la squadra che ha investito maggiormente sul mercato. Circa 238 milioni di euro, che comunque comparati ai 464 dell’anno scorso sembravano quasi un principio di austerity, per vincere una partita su tre in Premier League e rischiare di uscire ai preliminari di Conference League con il Servette. Bene, ma non benissimo.

Secondo il Brighton, che l’anno scorso era 24esimo per spese (poco più di 100 i milioni investiti sul mercato, che per gli inglesi son quasi la prassi) ma quarto per entrate grazie ai suoi quasi 200 milioni incassati. Quest’anno i Seagulls si sono rifatti alla grande, con 238 milioni spesi sul mercato e meno di 50 incassati.

La Premier domina il podio, con il Manchester United al terzo posto e 215 milioni spesi sul mercato. Appena sotto l’Aston Villa quinto, con 176 milioni, e quarto l’Atletico Madrid con 185 milioni. Solo sesto il PSG, da cui ci si aspettava un’estate scoppiettante dopo la partenza di Mbappé e invece ha speso “solo” 170 milioni.

7 in più della Juventus (settima con 163 milioni spesi) e 20 del Napoli, ottavo con 150. La TOP 10 la chiudono altre due inglesi, ovvero il Tottenham (poco meno di 149 milioni di euro investiti sul mercato, per pochissimo dopo il Napoli in questa speciale graduatoria) e il West Ham di Lopetegui con circa 145 milioni investiti.

Calciomercato

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