Si può arrivare ad uccidere per un’autogol? Se plasmassimo il contesto intorno ad una Colombia attanagliata dalla malavita, depredata dalla guerra tra i due principali cartelli della droga, Medellin e Cali, allora la risposta è si.
Forse basterebbe questo incipit per raccontare la tragica morte, anzi, l’efferato omicidio che ha visto coinvolto il difensore della nazionale Andres Escobar il 2 luglio 1994. Oppure, probabilmente, sarebbe più giusto trasformare questo episodio in esempio, istituendolo a caposaldo dell’imperversante follia che avvolgeva specialmente quel territorio circoscritto tra Panama, Perù, Brasile ed Ecuador.
Proprio il paese che ha come capitale Quito e che, non a caso, sfoggia gli stessi accostamenti cromatici della Colombia in termini di colori nazionali, sembra godere di un’assonanza tanto mistica quanto tangibile con questo calciatore. Andres, infatti, oltre al vantare origini ecuadoriane, sembrava incarnare sul campo, per la sua squadra e la sua nazione quell’aspetto per cui l’Ecuador è denominato in questa maniera: l’equilibrio.
Sì, perché se l’Ecuador prende il nome in conseguenza alla propria posizione sulla mappa geografica che lo definisce come paese equilibratore del mondo, in quanto occupante l’esatto punto per cui passa l’Equatore che divide il globo terrestre in due metà esatte denominate emisferi, allora Andres Escobar può tranquillamente essere definito come colui che fosse in grado di tracciare la linea di demarcazione tra la Colombia sanguinaria e quella selezione colombiana che prese parte al fatidico mondiale del 1994.
A più riprese abbiamo evidenziato come la storia in questione si riconosca e faccia perno su questi due aspetti dicotomici. Ora non resta che descriverli attingendo a quanto accaduto, attenendosi strettamente a quei fatti che hanno tinto di drammatico la vicenda.
L’anno in corso è il 1994. Siamo agli albori dell’estate e gli occhi del mondo sono puntati sugli Stati Uniti, luogo in cui si terranno i campionati mondiali di calcio. Tra le candidate alla vittoria finale, oltre alle solite note, c’è un’outsider qualificatasi alle fasi finali della competizione in qualità di prima in classifica del rispettivo girone, strappando consensi in tutto il Sud America, specie in seguito al roboante 0-5 inflitto all’Argentina al “Monumental”, tempio calcistico albiceleste per eccellenza, consapevole di poter disporre di una rosa in grado di far coesistere qualità e quantità: la Colombia.
I “Cafeteros” sono alle loro terza partecipazione mondiale della storia e vantano calciatori del calibro di Valderrama, Valencia, Asprilla ed Escobar, leader difensivo ed idolo dei tifosi dell’Atletico Nacional
, squadra di Medellin. Il girone in cui sono inclusi, con Romania, Svizzera e Stati Uniti padroni di casa, non sembra essere insormontabile e le loro quotazioni iniziano a salire.La gara d’esordio, però, non rispecchia le aspettative: la Romania di Hagi infligge un severissimo 3-1 ai colombiani che, dunque, ora si vedono costretti a vincere il secondo match. Gli avversari di turno sono i padroni di casa, il clima è rovente. E’ il 22 giugno del 1994, stadio Pasadena, lo stesso in cui quasi un mese dopo l’Italia vedrà sfumare i propri sogni di gloria. I primi 33 minuti di gara sono soporiferi, l’equilibrio regna sovrano, in campo e fuori, ma dal minuto 34 in poi nulla sarà più come prima: Harkes lascia partire un traversone teso dal versante mancino, Escobar, nel tentativo di anticipare l’attaccante avversario, effettua un intervento maldestro che trafigge il proprio portiere. Autogol. Questo è l’esatto frangente in cui ha inizio la follia.
La Colombia, da quell’istante, non si rialza più. Perde 2-1 e dice addio prematuramente alla competizione. Di fatto, quel gesto di Andres ha condannato all’eliminazione i suoi. Qualche giorno dopo i protagonisti dell’amara spedizione americana fanno ritorno in patria: Escobar torna, quindi, nella sua abitazione di Medellin dove gli è stato consigliato di restare per evitare spiacevoli accadimenti.
La sera del 1°luglio 1994, però, l’aspetto follia raggiunge la sua massima espressione: il difensore, stremato ed estenuato dal senso di colpa, cerca conforto nella compagnia di persone a lui care. Si reca in un noto locale di Medellin, denominato “Padua” dove trascorre la serata. Una volta giunte le ore 3 del mattino decide di incamminarsi verso la sua auto per tornare a casa: nel tragitto gli si affiancano due uomini, i fratelli Gallon, che iniziano ad inveire contro di lui alludendo al misfatto di Pasadena. Andres risponde loro a brutto muso e qualche istante dopo gli si palesa davanti un terzo individuo, Humberto Munoz Castro, che non ci pensa due volte e lo crivella con sei colpi di mitragliatrice.
I tre uomini, membri del cartello di Cali e facenti parte della schiera dei “Los Pepes“, avevano investito ingenti somme di denaro sulle sorti della nazionale colombiana nell’appena trascorso mondiale.
La mattina del 2 luglio 1994 Andres Escobar non c’è più, l’equilibratore è stato appena strappato alla sua nazione dalla cavalcante follia che la caratterizza.
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