Il portiere del Cagliari, Simone Scuffet, ha ripercorso le tappe della sua carriera in un’intervista concessa al “Corriere della Sera”.
In un’intervista concessa al Corriere della Sera, Simone Scuffet ha ripercorso le tappe della sua carriera. Dal famoso “no” all’Atletico Madrid alla scelta di andare all’estero, sino al ritorno in Serie A con il Cagliari.
Di seguito le parole di Simone Scuffet.
Simone Scuffet, lei non è più il baby fenomeno che rifiutò l’Atletico Madrid per fare l’anno della maturità e giocare nell’Udinese: adesso a 28 anni, nel Cagliari, è semplicemente un portiere maturo?
«Sì, l’esperienza ti aiuta a gestire le situazioni: se prendi ogni cosa nel modo giusto, la affronti molto meglio, fuori e dentro al campo».
Lei entrò in porta quasi per caso e suo padre solo in seguito le disse che da ragazzo era stato un portiere: una mancanza di comunicazione molto friulana, non trova?
«Sì, avevo 5-6 anni e scelsi la porta per caso. Lui aveva giocato in seconda categoria e non mi aveva mai detto nulla, perché non voleva condizionarmi: sono orgoglioso di non essere stato indirizzato nel mio percorso».
Il basso profilo è il segreto della scuola friulana?
«Il carattere non basta per fare le cose ad alti livelli, c’è tutto un lavoro tecnico e tattico che inizia da bambini. Però cercare di allontanarsi dai riflettori nel nostro ruolo può aiutare».
Vicario, Meret, Provedel, Perisan, lei: è stata una competizione feroce?
«Siamo molto amici, ma il livello era davvero alto e la competizione c’è sempre stata: la scelta che fece Vicario di andare a giocare in D perché aveva davanti Meret e Perisan, la porto spesso come esempio per il coraggio e per la lungimiranza».
Con il re del basso profilo Dino Zoff ha mai scambiato una parola?
«Agli inizi, quando il mio nome era diventato popolare: mi ha fatto i complimenti».
Con Buffon vi siete allenati in Nazionale?
«Sì, nel 2015, c’erano lui e Donnarumma: anche solo vederli allenare a duemila all’ora ti dà molto».
Quanto bene ha fatto Buffon ai giovani portieri e quanto invece è stato un modello impossibile da raggiungere?
«Ha fatto molto bene perché è stato un esempio che ci ha accompagnato fin da piccoli: la sua carriera è stata lunghissima e tutta ad alto livello. Se poi in tanti sono stati etichettati come nuovi Buffon, non è colpa sua, ma vostra, perché lui era unico. Donnarumma però può ripercorrere in molte cose la carriera di Gigi».
La Nazionale per lei è solo un ricordo lontano?
«Non ci penso, sono concentrato sul mio percorso al Cagliari. La speranza di tornare ci sarà sempre, ma bisogna essere realisti e sono stato fortunato ad andarci. E a capire quanto è bello».
È d’accordo con chi dice che nella lotta salvezza il portiere pesa come il centravanti?
«Sì, mi piacciono i portieri costanti, che riducono al massimo gli errori: ogni punto perso è pesante».
Si piace in questo momento?
«Sì anche se c’è sempre da migliorare. Quando analizzo le mie prestazioni o guardo altre partite, penso che quel che conta sia concedere il meno possibile. Perché poi la grande parata arriva, ma può essere anche un caso. La costanza è una delle cose più importanti».
È molto autocritico?
«Mi piace analizzarmi, ma sono critico al punto giusto: esserlo troppo può diventare un freno. Ci vuole equilibrio».
Le richieste pressanti sul gioco di piede quanto influiscono sui giovani portieri?
«Il ruolo sta cambiando tanto e bisogna essere bravi ad adattarsi».
Non tutti gli allenatori capiscono di portieri: è d’accordo?
«Non tutti hanno la voglia di immedesimarsi in un mondo a parte. Il mio allenatore Davide Nicola ad esempio ha grande curiosità, si avvicina per vederci lavorare in allenamento, fa domande al preparatore per capire meglio certi aspetti. E questo fa bene al nostro ruolo».
La famosa maturità in ragioneria che fece quando era esploso nell’Udinese come era andata?
«Bene, sono uscito con 72/100: nonostante tante cose dette e scritte, ci tengo a dire che la scuola l’ho finita perché era giusto così. Ma non ha mai influito nelle scelte della mia carriera».
Usa i social?
«Molto poco, mi piace isolarmi. Ho il profilo bloccato, almeno so che rispondo ai miei amici, non agli umori di chi una settimana ti fa i complimenti e quella dopo magari ti insulta».
La solitudine del portiere esiste?
«Per molti aspetti sì, ma dentro a un gruppo è bello sapere che puoi contare sugli altri. E che gli altri possono contare su di te».
Ha mai fatto un lavoro specifico, magari con un mental coach, per conservare l’equilibrio?
«No, ma rispetto chi lo fa. Per me è importante avere qualcuno con cui sfogarmi e trovare il modo di godermi i momenti liberi per ricaricarmi».
I guanti ultramoderni rendono più facile la vita?
«In realtà quando sono nuovi non sono pronti per l’uso: vanno sciacquati bene perché altrimenti rischiano di diventare molto scivolosi».
È per questo che i portieri trattengono poco i palloni?
«No, è perché i palloni sono sempre più veloci e i tiri più forti: la presa si vedrà sempre in meno».
La rinascita di De Gea come la vede?
«Ripartire così dopo un anno di inattività dice tanto della dedizione con cui si è allenato da solo. Ma se è stato tanti anni al top, c’era un motivo».
Dopo la sua esplosione e la ripartenza dall’estero, c’è stato un momento in cui ha avuto timore di non farcela?
«Ci sono stati dei momenti in cui speravo di trovare più continuità e di avere occasioni che non sono arrivate. Dentro di me c’è sempre stata voglia di lavorare per ottenere qualcosa in più e dimostrare che gli altri, come a Udine, si stavano sbagliando. Anche per questo ho fatto scelte particolari, che sono state considerate in modo negativo, come quella di ripartire da Cipro. Ma quell’esperienza mi ha dato tanto. Ho ricominciato un po’ da zero e mi ha ritrovare continuità e fiducia».
Questo a Cagliari è il momento migliore della sua carriera?
«Sì, ma già in Romania mi sentivo molto bene. Tornare ad essere un portiere di serie A, non perché volessi tornare in Italia a tutti i costi ma per il livello del gioco, era quello che volevo».
Si può farle un’intervista senza nominare il suo rifiuto all’Atletico Madrid?
«Spero che un giorno si riesca. È stata una scelta particolare, volevo continuare il mio percorso a Udine e il giudizio degli altri è stato condizionato dal fatto che l’anno dopo sono rimasto in panchina. Ma in quel momento lì non si poteva sapere».
L’etichetta di quel rifiuto le ha pesato?
«Più per gli altri che per me. Ma non posso dire che un ragazzo di 17-18 anni viva queste cose a cuor leggero».
Qualcuno con un carattere diverso dal suo rischiava di perdersi?
«Non tutti avrebbero fatto le scelte che ho fatto, sia quelle giuste che quelle sbagliate. Ma sono orgoglioso del percorso che mi ha portato qui e spero di migliorarlo ancora. Nella vita se uno fa le cose seriamente prima o poi arriva a raccogliere i risultati. Però c’è una condizione».
Quale?
«Non bisogna mollare mai, non bisogna tirarsi indietro neanche un giorno, perché una parata, un allenamento, una partita possono cambiarti la carriera».
Aggiornato al 16/10/2024 12:57
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