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Roma, Agostino Di Bartolomei: il capitano del vessillo

Trent’anni fa la tragica scomparsa dello storico capitano che, ancora oggi, unisce e strugge il cuore di tante generazioni di tifosi della Roma.

E’ il 30 maggio 1994. Siamo a Castellabate, comune situato nella splendida cornice del Cilento. La quiete viene improvvisamente interrotta dal suono di uno sparo. Un rumore di quelli che è difficile non distinguere nel caos, figuriamoci nel silenzio di quel luogo. La vittima di quel colpo è un uomo complesso da capire, ancora di più da raccontare. Quell’uomo è Agostino Di Bartolomei.

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Il bambino di Tor Marancia

Siamo nella Roma degli anni ’60, città simbolo del boom economico italiano che darà ai cittadini la speranza di un futuro migliore e prospero dopo le macerie lasciate dal secondo dopoguerra. I momenti di aggregazione tornano ad essere la quotidianità. I bambini tornano a giocare nelle piazze e nelle parrocchie.

In una di quest’ultime, precisamente alla San Filippo Neri, un bambino dai capelli neri corvino si diverte a giocare a calcio con gli altri suoi coetanei, immaginandosi un giorno di poterlo fare con la maglia della sua squadra del cuore: la Roma. Loro però sembrano essere abbastanza intimoriti dalla sua presenza. Per quale motivo? Perché quel bambino ha un tiro potentissimo, fuori dal comune. E nessuno dei suoi amichetti vuole trovarsi in barriera quando Agostino deve battere una punizione.

Il primo vero allenatore di Agostino Di Bartolomei è papà Franco, che lo porterà a giocare nella sua prima società sportiva, la OMI, club satellite della Roma. Qui il piccolo Agostino si formerà calcisticamente, dimostrando da subito di essere un passo avanti rispetto ad i suoi coetanei e facendosi subito notare da tanti osservatori, tra cui quelli del Milan.

Di Bartolomei è appena tredicenne, ma la società rossonera vuole portarlo a Milano. Sembrerebbe cosa fatta, ma Agostino ha le idee chiare: non si muove da Roma. Quella è casa sua. Quella è la sua fede. Strano il destino a volte, perché lo stesso Milan proverà trent’anni più tardi a portare a Milanello un altro giovane talento giallorosso, tale Francesco Totti, ma la risposta sarà la stessa. Tuttavia, le strade di Agostino e del Diavolo si rincontreranno più in là.

L’esordio in prima squadra

L’esordio con la Roma in Serie A avviene il 22 aprile 1973, pochi giorni dopo il suo diciottesimo compleanno, nella trasferta contro l’Inter terminata per 0-0. Il primo gol con la maglia giallorossa arriva la stagione successiva, nella gara casalinga contro il Bologna, terminata 2-1 per la squadra romanista. Agostino Di Bartolomei diventa l’eroe della giornata, ma nonostante questo nell’ambiente notano una caratteristica che per il futuro capitano della Roma diventerà un tormentone nel corso di tutta la sua carriera: la lentezza.

Molti considerano sia esagerata, quasi anacronistica. Ma Di Bartolomei ha un intelligenza calcistica fuori dal comune che lo aiuterà a sopperire alla mancanza di velocità nel momento del bisogno. L’importante è che sia veloce il pallone, e non chi lo porta. Il primo dispiacere di Di Bartolomei è l’infortunio al menisco all’inizio del ritiro per la stagione 1974-75, che lo costringerà ai box per gran parte dell’annata. Nel 1975 finisce in prestito al Lanerossi Vicenza in Serie B dove per la prima volta, agli ordini del tecnico Manlio Scopigno, disputerà l’intera annata da titolare, che lo aiuterà a maturare in maniera definitiva.

Inquietudine e pistole

Siamo nel pieno degli anni 70′. Un periodo storico particolare, cupo, misterioso. Anni di piombo, in cui la lotta tra frange di estrema destra ed estrema sinistra diventa armata, e nelle cronache locali la pistola è l’assoluta protagonista. Un decennio di profonda incertezza ed inquietudine che Agostino vivrà sulla sua pelle, in prima persona. Sul Lungotevere una Jeep si accosta alla sua macchina, speronandola. Diba è costantemente vittima di minacce da ignoti, come ignoti rimangono, ancora oggi, i motivi di tale minacce e i mandanti. Il calcio é politicizzato e diventa strumento per propagande politiche, spesso violente.

Di Bartolomei è un ragazzo dal carattere tranquillo, taciturno, e forse proprio per quello si sente in pericolo più di tutti. Agostino decide che è arrivato il momento di trovare un modo di difendersi, ed acquisterà una pistola. Forse avrà pensato che potesse essere l’unico modo per sentirsi protetto dalle insidie esterne non pensando che quella stessa pistola sarebbe stata, anni più tardi, il mezzo più crudele per fuggire da un mondo che non capiva e che non comprendeva più.

La rometta (ri)diventa Roma

Per i tifosi romanisti nel sangue come Di Bartolomei gli anni 70′ saranno quelli più difficili dal punto di vista sportivo. La Juventus la fa da padrona, la Lazio ha vinto il suo primo scudetto raggiungendo nel palmares gli stessi giallorossi. Sono gli anni della Rometta, un nome che ancora oggi viene utilizzato come sfottò per annate senza gioie. Anni che sembrano non finire ormai. Ma nel 1979 alla presidenza della Roma arriverà un ingegnere che porrà fine ai tempi cupi, e ridisegnerà una delle Rome più belle di sempre. Quell’ingegnere si chiama Dino Viola.

Da subito Viola ha in mente una Roma bella e vincente, e per rendere questa idea realtà la costruirà con due mosse fondamentali sul campo e in panchina. La squadra ruoterà intorno ad Agostino Di Bartolomei, che da quel momento in poi sarà il capitano, e in panchina richiamerà lo svedese Nils Liedholm.

Il primo successo dell’era Viola arriva nel maggio del 1980. La Roma conquisterà la Coppa Italia ai calci di rigore contro il Torino. Di Bartolomei sbaglierà dal dischetto, ma un Tancredi in stato di grazia renderà la tristezza dell’errore meno amara. Agostino alzerà il suo primo trofeo con la maglia giallorossa, mettendo fine ad un digiuno di dieci anni.

Nella stagione successiva sbarca nella capitale il Divino Paulo Roberto Falcao. La Roma sembra avere tutte le carte in regola per giocarsela alla pari con la Juventus nella corsa al campionato, ed effettivamente fu così. I giallorossi arrivano allo scontro diretto di Torino distanti solamente un punto dai bianconeri. Da Roma arrivano oltre quindicimila tifosi per sostenere la propria squadra nel rush finale della stagione, consapevoli che quel tanto agognato scudetto potrebbe essere cosa fatta in caso di successo. Dopo una partita carica di tensione, al 75esimo Turone illude il popolo giallorosso, insaccando di testa su assist dello stesso Falcao. Il settore ospiti esplode, ma Turone si mette le mani sul volto quando vede il guardalinee Giuliano Sancini con la bandierina alzata: il gol è annullato.

Varie immagini, riprese e moviole non placheranno un dibattito che persiste ancora, a distanza di decenni. La Roma è furiosa, ancora di più lo sono i tifosi, che si sentono derubati di un sogno, oltre che di uno scudetto. Scudetto che poi vincerà la stessa Juventus. Ma Di Bartolomei è consapevole che la Rometta è ridiventata Roma, e fa paura a tutti. E d’altronde è lo stesso Dino Viola che lo dice: “La Roma non ha mai pianto, e mai piangerà. Perché piange il debole. I forti non piangono mai.”

La fine dell’incubo

La Roma comincia la stagione 1982/1983 con un aria diversa. Frizzante, elettrica, e soprattutto ottimista. Bruno Conti è appena tornato da campione del mondo dal mondiale di Spagna, dove è stato eletto miglior giocatore del torneo. Falcao è diventato uno dei migliori centrocampisti del campionato, e Roberto Pruzzo ha voglia di rivalsa dopo non essere stato convocato da Bearzot. Ed Agostino? Nemmeno lui, ma non ne fa un dramma. Per lui la sua Nazionale è sempre stata la Roma, e lo ha sempre dimostrato con i fatti e con il sacrificio. L’ultimo che gli viene chiesto è di tipo tattico. Liedholm vuole dare più velocità al centrocampo e più libertà di manovra allo stesso Di Bartolomei, e lo sposta da mediano a libero difensivo.

Addetti ai lavori e tifosi non sono convinti di questo cambio tattico da parte del Barone, poiché ancora convinti che la lentezza di Ago possa essere letale se esposta in fase difensiva. E le prime giornate sembrano dare ragione a questi timori, ma giornata dopo giornata, partita dopo partita Di Bartolomei cresce a livello di rendimento e di prestazioni, dimostrando ancora una volta che l’intelligenza tattica sopperisce ai limiti fisici e strutturali.

Dopo la sconfitta di Genova contro la Sampdoria, la Roma vince tre gare di fila e balza in testa al campionato. La squadra è completa in ogni reparto, dalla difesa all’attacco. La questione è una cosa a due tra la squadra giallorossa e, ancora una volta, la solita Juventus. Lo scontro diretto del 6 marzo 1983 contro i bianconeri è un crocevia fondamentale. La Roma perde 1-2 all’Olimpico, e per molti questa sconfitta potrebbe rappresentare una mazzata morale dalla quale i ragazzi di Liedholm non potrebbero più riprendersi, proprio come tre anni prima. Ma il vento è cambiato. Stavolta no, non si può fallire. Bisogna rialzare la testa, e la Roma risponde presente.

La trasferta di Pisa vede un vero e proprio esodo dei tifosi romanisti dalla capitale. Sanno che è arrivato il momento di non mollare e di far sentire ancora di più il proprio supporto alla squadra. Falcao apre le marcature nel primo tempo, e a chiuderle nel secondo ci pensa proprio Agostino con una punizione, per l’appunto, alla Di Bartolomei. Ago corre verso il settore ospiti rabbioso con il pugno alzato. Quella sana rabbia che solo un tifoso romanista può capire infondo. Quegli occhi di ghiaccio sembrano quasi colorarsi di un rosso accesso, passionale. Il capitano suona la carica.

Il 1 maggio allo Stadio Olimpico arriva l’Avellino. Dopo il vantaggio siglato dal solito Falcao, Di Bartolomei si ripete ancora una volta. Il gol del 2-0 è un tiro composto da un mix di tecnica e precisione che si insacca all’angolino alla sinistra del portiere. Agostino urla con le braccia al cielo, e si inginocchia, sommerso dall’affetto dei suoi compagni. La Juventus pareggia 3-3 contro l’Inter. Ai giallorossi basta un punto per potersi laureare campioni d’Italia. Ago lo sa. Ma la sua è una missione, e finché questa missione non sarà compiuta nessuno dovrà lasciarsi andare, specialmente lui. Nell’intervista di Galeazzi al termine del match è racchiusa tutta l’essenza di Diba:

“Capitano, allora, mancano tre giornate. L’equipaggio chiede: andremo in porto o no?”

“In porto andremo sicuramente. Vediamo di arrivarci con il vessillo.”

L’8 maggio la Roma sfida il Genoa nella trasferta di Marassi. Ad entrambe le compagini basta un punto per raggiungere i propri obiettivi: scudetto e salvezza. Al vantaggio di Pruzzo risponde Fiorini. Tutto nel primo tempo, ma tanto basta. La gara termina 1-1, e alle 17:45 la Roma è campione d’Italia, quarantuno anni dopo l’ultima volta. I tifosi giallorossi invadono il terreno di gioco,  e per le strade della capitale si scatena la festa.

Di Bartolomei, ancora una volta, dimostra un estrema lucidità anche in un giorno di festa durante l’intervista negli spogliatoi, ma al termine di essa si lascia andare ad un sorriso timido ma esplicativo. Un sorriso che significa la fine di un incubo durato anche troppo. Questo scudetto significa tanto per lui, per i suoi tifosi, per la sua gente. Il capitano ha compiuto la missione. Il vessillo è arrivato in porto. Ma adesso c’é un nuovo appuntamento col destino.

Notte di sogni, di coppe, di campioni

Il destino ha un luogo preciso. Sì, perché la UEFA ha deciso che la finale di Coppa dei Campioni del 1984 si disputerà allo Stadio Olimpico di Roma. Un occasione quasi irripetibile, un segno delle stelle. I tifosi giallorossi non aspettano altro, e sentono che quella Coppa deve essere loro.

L’inarrestabile cavalcata europea della Roma sembra confermare tutto ciò. I giallorossi eliminano Goteborg, CSKA Sofia e Dinamo Zagabria, arrivando alla semifinale contro gli scozzesi del Dundee. Una squadra nettamente inferiore tecnicamente, ma che metterà in serio pericolo l’appuntamento col destino dei ragazzi di Liedholm. Nella gara d’andata in Scozia la Roma perde 2-0 giocando male, soffrendo sia fisicamente sia a livello climatico. Un freddo pungente che paralizza le gambe e la testa dei giallorossi. Al termine della gara i giocatori del Dundee e i tifosi sbeffeggiano i romanisti.

Nella gara di ritorno, il 25 aprile 1984, c’è un Olimpico gremito ed infuocato di passione. Un sole caldissimo accoglie l’ingresso in campo dei giocatori. La Roma ci crede e vuole provare quella che oggi chiameremo la “remontada”. Dino Viola ha ottenuto la possibilità di giocare di pomeriggio invece che di sera, e questo coglierà di sorpresa il Dundee United, che farà una fatica immensa a giocare sotto un caldo atipico per le loro abitudini.

Al 20′ del primo tempo Pruzzo porta in vantaggio i giallorossi con un colpo di testa dei suoi, e venti minuti più tardi siglerà la sua doppietta personale. La Roma è sul 2-0, agguantando il risultato dell’andata. Nel secondo tempo il bomber di Crocefieschi si rende ancora protagonista guadagnandosi un calcio di rigore. Sul dischetto si presenta Agostino (e chi sennò?). Questa volta si ricorda dei rimproveri di papà Franco dopo il rigore fallito nella finale di Coppa Italia del 1980 contro il Torino, e spiazza il portiere degli scozzesi. E’ 3-0. La rimonta è completata, si va in finale. Sembrerebbe un lieto fine già scritto. La finale a Roma, davanti al proprio pubblico, la propria gente. Ma i lieti fini, a volte, possono essere stravolti in un attimo ed oscurare la luce della speranza, come un eclissi. La stessa eclissi che, il 30 maggio del 1984, oscurerà il cielo di Roma.

L’attesa per la finale è estenuante per i tifosi ma, soprattutto, per i giocatori, che vengono blindati in ritiro a 7 giorni dalla gara. Ad attenderli in finale c’è il Liverpool, una squadra che di coppe di campioni ne aveva già vinte tre. Le voci che arrivano dall’esterno non aiutano a mantenere quella serenità che sarebbe fondamentale avere per la gara più importante della tua storia. Liedholm è sul piede d’addio, e a sostituirlo sarà Sven Goran Eriksson. Un allenatore che, di fatto, sarà legato anche al destino dello stesso Di Bartolomei.

Lo stadio è stracolmo. Già dal primo mattino i tifosi giallorossi prendono posto sui propri seggiolini, quasi come a volersi fare forza l’uno con l’altro. A volersi stringere ancora un po’. A voler ignorare l’eclissi in atto, a prenderla come una casualità e non come un chiaro segno del destino.

Di Bartolomei ha il solito sguardo impenetrabile, ma anche lui sa che questo è un appuntamento che non gli ricapiterà più. Al 14esimo minuto il Liverpool passa in vantaggio con Neal. Un gol rocambolesco, paradossale. L’eco dei tifosi dei Reds in festa squarcia il silenzio della parte giallorossa del tifo. Ma dopo qualche minuto di smarrimento la Roma si scuote, e sul finire del primo tempo Roberto Pruzzo insacca di testa la rete dell’1-1.

Nella seconda frazione di gioco il n.9 giallorosso è costretto ad abbandonare il campo per un infortunio e la squadra ne risente dal punto di vista offensivo. Il Liverpool prova ad approfittarne, ma senza riuscirci. Anche i supplementari non sbloccano la situazione. Per la prima volta nella storia una finale di coppa dei campioni si deciderà ai calci di rigore.

La lista dei rigoristi di Liedholm non è quella che i tifosi della Roma si aspettano. Oltre a Pruzzo e Cerezo, usciti per problemi fisici, non c’è Paulo Roberto Falcao. Per quale motivo? Il Divino avverte lo staff e la squadra di un presunto problema accusato durante la gara, e si rifiuta di presentarsi dal dischetto. Alcuni senatori sono increduli da questa decisione, e lo saranno anche in futuro. Un gesto che molti tifosi romanisti faranno fatica a dimenticare.

Il Liverpool parte per primo a tirare dei rigori, fallendo il primo. Per la Roma si presenta proprio Diba, che non fallisce. Grobbelar, il portiere degli inglesi, comincia un balletto sulla linea di porta che per molti anni sarà l’incubo dei tifosi giallorossi. Conti si lascia ipnotizzare, e sbaglia. Ian Rush e Righetti non falliscono. L’ultimo calcio di rigore tocca a Ciccio Graziani, che tutto è stato nella sua carriera, fuorché un rigorista. E lo dimostrerà anche in quella serata. Graziani sbaglia, ed il Liverpool è campione d’Europa.

La delusione è accompagnata da un silenzio assordante per le vie della capitale. Le lacrime solcano i visi di migliaia di tifosi giallorossi, che cercano un conforto guardando quel cielo scuro che mai si riaprirà. E’ notte. E quel 30 maggio sarà sempre notte.

Sul dopo partita girano tantissime voci. Quella più insistente vede Di Bartolomei coinvolto in un duro litigio con Falcao. Qualcosa comincia a scricchiolare nello spogliatoio giallorosso, che forse aveva intuito che quella finale di coppa campioni potesse essere la “The Last Dance” con un lieto fine che purtroppo non arrivò. Agostino si sente in debito con i tifosi giallorossi. Un debito che nemmeno la finale di Coppa Italia vinta contro il Verona un mese più tardi cancellerà. Un debito che, forse, sarà per Agostino una fonte di eterno dolore e solitudine.

Di Bartolomei non si sente più al centro della Roma, della sua Roma. Quella Roma di cui è tifoso fin da bambino, e per cui ha dato tutto. Lacrime, sangue, sudore. Un amore viscerale nascosto da un carattere schivo ma schietto. Perché Di Bartolomei va via da casa sua? Nell’ambiente si parla di alcuni dissapori con Dino Viola, che per la stagione successiva aveva scelto Eriksson come allenatore del dopo Liedholm: un calcio tutto aggressività e velocità. Un calcio lontano dallo stile di Agostino, che forse per alcuni era considerato già nella fase discendente della sua carriera. Dopo 15 anni Agostino indossa per l’ultima volta la maglia giallorossa. Le sue ultime parole da romanista furono queste: “Se uno capisce che è di peso meglio togliere il disturbo. Io, purtroppo, ho capito soltanto questo.”

Tradimento e perdono

C’è ancora però qualcuno che crede ancora in Agostino, e quel qualcuno è Niels Liedholm. Il tecnico svedese ha salutato la Roma per ritornare al Milan, e vuole con sé il suo ex capitano giallorosso. Diba si sente ancora in piena forma, ed accetta la proposta. Con Marisa e il piccolo Luca chiuderà il portone della casa romana per l’ultima volta e si traferirà al nord, dove ad accoglierlo ci sarà Silvio Berlusconi.

E’ un Milan in fase sperimentale. Un cantiere aperto fatto ancora di giovani promesse, le stesse che qualche anno più tardi domineranno in Italia ed in Europa. Ma questi giovani hanno bisogno di una guida carismatica, ed Agostino è l’uomo giusto. Tutti lo rispettano. Di Bartolomei si cala completamente in questa nuova realtà, una realtà che dopo vent’anni non si chiama più Roma. Ma i conti con il passato, prima o poi, vanno fatti. E quei conti si presentano in un pomeriggio d’ottobre del 1984, quando a San Siro arriva proprio la squadra giallorossa.

Agostino, come sempre, cerca di non far trasparire le sue emozioni, ma anche lui sa bene che questa è una partita diversa dalle altre. Orgoglio e riconoscenza si mescolano in un vortice emozionalmente difficile da controllare anche per un uomo imperturbabile come Ago, e la dimostrazione arriva sul campo. Al 14esimo minuto del secondo tempo Agostino si incunea palla al piede in area di rigore e batte il portiere giallorosso. Di Bartolomei si ferma con le braccia al cielo davanti la Curva Sud ed esulta. Quella Curva Sud però non è più colorata di giallorosso, ma di rossonero. I compagni lo abbracciano, lui sorride. Un sorriso tirato, però. Un sorriso che forse vuole nascondere una sofferenza interiore che sta lacerando la stessa anima di Agostino. La gara finisce 2-1 per il Milan.

L’esultanza di Di Bartolomei non è passata inosservata ai tifosi giallorossi, che tutto immaginavano fuorché che a segnare e ad esultare sarebbe stato il loro ex capitano. Lui, romano e romanista dai primi vagiti. In tanti gridano al tradimento, anche i suoi ex compagni. A febbraio ci sarà la gara di ritorno all’Olimpico, e molti l’hanno cerchiata di rosso sul calendario.

Agostino viene accolto da tantissimi fischi. Quegli stessi tifosi che solo qualche mese prima lo osannavano. Quegli stessi tifosi che, sotto la sua guida, erano tornati al successo dopo anni di delusioni. Lui che per la Roma aveva dato tutto. Diba questa volta non ci sta. La sua proverbiale calma sparisce, facendo largo al nervosismo e al risentimento. Nel secondo tempo una sua entrata su Bruno Conti, uno dei pionieri della Roma dello scudetto, scatena un acceso parapiglia. Ciccio Graziani si scaglia in difesa del suo compagno e contro il suo ex capitano. Tutti contro Ago, Ago contro tutti. Serve qualche minuto per sedare gli animi. A fine gara Agostino dice: “Io non ho mai fatto polemica. Sono un bravo ragazzo.”

Nella partita contro la sua Roma viene fuori tutta l’anima tormentata di Agostino, che vive i fischi dei suoi tifosi come un affronto nei suoi confronti. Di Bartolomei non avrebbe voluto tutto questo, e forse non lo immaginava nemmeno. Ma il tempo cambia le cose in attimo, come una folata di vento che porta via le foglie secche. Agostino, da uomo intelligente, ne è consapevole, ma forse in lui vive ancora un inguaribile anima romantica e sensibile che vuole ribellarsi a tutto questo.

Ultima fermata: Salerno

Come nel 1984, anche tre anni più tardi l’arrivo di un nuovo allenatore cambia il futuro di Agostino. Via Liedholm, sulla panchina dei rossoneri arriva un allenatore che rivoluzionerà il mondo del calcio e che porterà il Milan sul tetto del mondo: quell’allenatore è Arrigo Sacchi. Di Bartolomei non rientra nei piani del nuovo tecnico, ma questa volta lui stesso sa che è entrato nella parabola discendente della sua carriera. Dopo l’esperienza di un anno in quel di Cesena, nel 1988 Di Bartolomei raggiunge l’accordo con la Salernitana.

Una scelta professionale e di vita, poiché sua moglie Marisa è originaria di quelle zone. Una scelta d’amore, che porterà lo stesso Agostino a stabilirsi definitamente a Castellabate. L’aria di mare, si sa, è un toccasana per le anime tormentate ed irrequiete, e lì Di Bartolomei trova il suo posto nel mondo. Dopo Roma, si intende.

Con la stessa Salernitana Agostino si metterà al servizio dei compagni e della società, raggiungendo un traguardo quasi epico. A Brindisi Agostino conquisterà con i granata una storica promozione in Serie B. I tifosi sono in delirio, e portano in trionfo l’ex capitano della Roma. Ancora una volta Di Bartolomei non si è sottratto alle sue responsabilità. Ancora una volta Diba ha compiuto una missione che sembrava quasi impossibile. Ma stavolta è l’ultima.

Una settimana più tardi, nella festa in campo per la promozione, in mezzo a giornalisti e tifosi, Agostino annuncia il suo ritiro dal calcio giocato. Il momento è arrivato. Lo annuncia con la sua solita proverbiale calma, ricordando la sua prima gara in Serie A, contro l’Inter a San Siro. La maglietta, però, era giallorossa. La sua seconda pelle.

Ricordo che quand’ero ragazzino, sognavo di essere Agostino

E adesso cosa farà Agostino? Di Bartolomei è un uomo silenzioso, ma con il cervello in continuo movimento. Agostino scrive, butta giù appunti ed idee. Grazie al figlio Luca ne nasce un libro postumo nel 2012: “Il manuale del calcio”. Ma Agostino non può vivere senza missioni, e la sua ultima missione fu questa: aprire una scuola calcio a Castellabate. Ma stavolta, però, come in quella sera sul Lungotevere Agostino deve fare i conti con le minacce del mondo esterno. Questa volta di stampo camorristico. Aprire delle infrastrutture in Italia è un processo lungo e tortuoso, figurarsi in zone in cui la mafia alza la voce tutte le volte che qualcuno prova a portare un barlume di speranza. Questa volta la missione non può compiersi.

Di Bartolomei vive in solitudine, ma stavolta è una solitudine che fa rumore. Un rumore assordante, come assordante è il silenzio che viene dalla Roma. Quella Roma in cui non era più riuscito a tornare. Agostino, forse, si sente abbandonato, incompreso, ignorato. E l’indifferenza a volte è la più crudele delle armi. Cosa fare quando i tuoi i silenzi non vengono ascoltati? Come ci si può sentire? Forse c’è chi riesce a farsene una ragione, certo. Ma non Agostino. I silenzi diventano sempre più frequenti, ma stavolta non sono dettati dal suo carattere introverso. Stavolta sono dei silenzi carichi di significato. Silenzi che una mattina del 30 maggio 1984 vengono interrotti dallo sparo di una pistola.

Agostino Di Bartolomei si toglie la vita il 30 maggio 1994, a soli trentanove anni. La notizia passa di telegiornale in telegiornale, di quotidiano in quotidiano. Stavolta l’avversario era troppo forte, troppo ingombrante. Il capitano ha lasciato cadere il vessillo. Sono tante le voci e le domande che tutti si posero quella mattina del 30 maggio, dai familiari ai tifosi, passando per gli ex compagni: Perchè? Per quale motivo? Cosa è successo?

Queste risposte non si avranno mai. O forse sì. Forse le risposte erano state da sempre negli occhi di Agostino. O forse, ogni 30 maggio, basterà volgere lo sguardo al cielo e probabilmente si vedrà il cielo oscurato, come in un eclissi. La stessa eclissi che nel 1984 arrivò a coprire il cielo di Roma. La stessa eclissi che, da trent’anni a questa parte, ha gettato un ombra di malinconia su tante generazioni di tifosi romanisti che si tramandano il nome e le gesta di Agostino. Figli di Roma, capitani e bandiere.

Aggiornato al 30/05/2024 9:42

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Pubblicato da
Michele Capolupo
Tag: Roma

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