editoriale
Pizzaballa, la figurina “introvabile” e l’erede di Francesco

Storia particolare quella della famiglia Pizzaballa. Conosciuta dagli appassionati di calcio per un motivo, salita agli onori delle cronache per un altro.
“Ahh, ecco cos’era quella sensazione di déjà vu che avevo!” Quando si è fatto il nome del cardinale Pierbattista Pizzaballa come possibile successore del compianto Bergoglio, ho avuto la sensazione di averlo già sentito.
Pizzaballa, una storia a metà fra il “sacro” e il “profano”
A poco c’entra il “recente” invaghirsi della politica. E’ una sensazione che viene da lontano, dalle reminiscenze di un passato da appassionato di calcio e da collezionista. Immagini sbiadite dal tempo, ma comuni a tutti come gli archetipi psichici di Jung. Perché tutti, almeno una volta nella vita, hanno fatto l’album dei calciatori panini.
Ed è vero che, per sua stessa ammissione, a Pier Luigi Pizzaballa (ex portiere dell’Atalanta) non piace essere ricordato più per la figurina della discordia che non per la sua carriera da calciatore. Non si tratta di un comune caso di omonimia, perché i due sono parenti. Cugini, per la precisione. Alla lontana eh, ma pur sempre cugini.
La famigerata storia della “figurina introvabile” risale alla stagione 1963/1964, quando, tutt’ora non si sa né come né perché, il cartoncino di Pizzaballa non era presente nell’archivio. La Panini dovette ristamparla per poterla aggiungere in un secondo momento nel blocco dei titolari, ma ormai il “danno” per molti collezionisti era fatto.
Per molto tempo, almeno sino al momento della sua ristampa, la figurina del portiere orobico divenne un rarissimo pezzo da collezione. E chi non è mai stato un collezionista o non si è mai interessato a questo mondo non può capire quali disastri comporti il principio di scarsità applicato al collezionismo: libero mercato starter pack.
Lo stesso Pier Luigi, che in un’intervista concessa a BergamoNews nel 2019 disse di aver ricevuto in regalo la sua stessa figurina da un professore di Avellino, ammise che “Se un giorno sarò in crisi economica, la venderò: chissà quanto vuole“. Una battuta, probabilmente, ma non troppo: certe figurine valgono davvero quanto una casa.
A La Gazzetta dello Sport, Pizzaballa dirà “Se il mio cugino alla lontana diventerà Papa, gli regalerò la mia figurina“. Un regalo non da poco, per un mito che trascende il tempo e le generazioni. E che ha permesso anche alle nuove generazioni di conoscere una storia appartenente ad un’altra epoca, quando l’Atalanta che alza al cielo l’Europa League sembrava una fantasia. All’epoca certamente lo era, ma per i giovani d’oggi è quasi “normalità”.
editoriale
Più brand che squadra: il Milan ha perso la sua voce

Milan-Serie A: Dalle lacune dirigenziali al velato appoggio nei confronti della guida tecnica. Il vero problema in casa Milan è la comunicazione. Ecco i dettagli.
Da Fonseca a Conceição o la bufera dirigenziale, il vero problema del Milan in questa stagione – e non solo – è stato quello della comunicazione. Spesso assente o troppo sbilanciata su una visione business-oriented, mirata a valorizzare il potenziale di un brand enorme come quello di una società capace di vincere tutto in trent’anni, la comunicazione rossonera ha finito per trascurare ciò che accade sul campo. E, quel che è peggio, non sembra destinata a cambiare rotta.
Un gioco delle parti a tratti ambiguo, che talvolta ha appoggiato apertamente l’allenatore in carica – prima Fonseca, oggi Conceição – e in altre occasioni si è invece affrettato ad additare le guide tecniche come uniche responsabili dei risultati deludenti. Fino ad arrivare alle parole di Zvonimir Boban, che nelle ultime ore hanno fatto il giro del web.
Parole che non hanno fatto altro che alimentare un polverone del tutto evitabile intorno a una dirigenza già da tempo contestata e invitata a prendere una direzione diversa. Un intervento che solleva ulteriori dubbi sulla reale vicinanza dei piani alti al destino sportivo del Milan, specie alla luce di una comunicazione che – pur dichiarandosi fedele al motto “Always Milan” affisso anche sulla fiancata del Pullman che accompagna la squadra – appare oggi sempre più distante dallo spirito e dai valori storici del club.
Milan, cosa è successo?
Due sono gli eventi simbolici che riassumono al meglio le lacune comunicative della dirigenza rossonera: il caso legato al direttore sportivo (il cosiddetto “DS gate”) e la scelta dell’allenatore per la prossima stagione. Una la conseguenza dell’altra.
Prima ancora di pensare alla guida tecnica, infatti, il Milan dovrebbe risolvere le fratture interne alla propria struttura societaria. Qualunque sia la direzione intrapresa, sarà il nuovo dirigente – chiunque egli sia, ammesso che ci sia – a decidere a chi affidare la panchina rossonera nel 2025/26. Ma al momento resta viva la percezione, condivisa anche all’esterno, di un club diviso tra due anime, due visioni inconciliabili che impediscono di tracciare una linea chiara e coerente.
Ai piani alti risiedono quei nomi altisonanti additati da Boban come “non competenti”, che hanno fatto di tutto per sbarazzarsi degli ultimi due baluardi capaci di comprendere le esigenze del club, la coppia Maldini-Massara e prima ancora lo stesso Boban.
Business men con un’idea in testa, volti a seguire un ideale sempre più distante dall’eredità del club più internazionale che esiste in Italia: il Milan.
Una società volta a rendere realtà il modello inglese del “Surveillance Capitalism”, dove il tifo diventa un’occasione di lucro per l’azienda. Che come descritto dalla nota sociologa statunitense Shoshana Zuboff, in questo modello l’utente – e in questo caso il tifoso – non è il consumatore, ma il prodotto.

ZLATAN IBRAHIMOVIC PENSIEROSO GUARDA IN ALTO ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
Prima Tare, poi l’accordo (successivamente saltato) con Paratici, passando per D’Amico, salvo poi tornare sui propri passi con lo stesso Tare, e infine il silenzio. Un silenzio che, dopo Pasqua, ha finito per contraddistinguere le stanze di Casa Milan. Perché, in fin dei conti, dove altro si può trovare il “Board of Governors” rossonero?. Al di là delle comparsate di Ibrahimović in stile cameo e di qualche dichiarazione pre-scritturata di Furlani, il resto dei dirigenti del Milan sembra sparito nel nulla. Un mistero che nemmeno una ricorrenza come il 125º anniversario del club è riuscita a svelare.
Ritrovare chiarezza e unità dovrebbe essere la priorità. Perché in una società come l’AC Milan, che in passato ha insegnato comunicazione sportiva a tutto il calcio europeo, questi aspetti non possono più essere considerati secondari.
editoriale
Cagliari, questa salvezza è tutt’altro che un miracolo

Il Cagliari cade anche a Como ma rimane in zona sicura. La squadra di Nicola è ormai a un passo dalla salvezza, ma continua a non convincere.
Il Cagliari cade anche a Como e incassa la quarta sconfitta nelle ultime cinque giornate. Una striscia negativa che stona con l’obiettivo salvezza ormai quasi raggiunto, ma che lascia pochi sorrisi e tante perplessità. Dopo la vittoria pesante in casa dell’Hellas Verona, che aveva di fatto ipotecato la permanenza in massima serie, i rossoblù sembrano essersi fermati, come se il traguardo virtuale bastasse per considerarsi soddisfatti.
La realtà, però, racconta di una squadra che gioca male, che non ha un’anima e che mostra gli stessi limiti mentali e strutturali di inizio stagione, soprattutto quando subisce un gol.
Contro il Como si è vista una squadra fragile e senza grinta, in linea con le ultime uscite. L’ultimo periodo ha confermato che, più che merito dei rossoblù, la salvezza, seppur ancora non aritmetica, è figlia soprattutto dei demeriti delle dirette concorrenti.
I fischi di parte del pubblico, nonostante l’obiettivo a un passo, sono un segnale evidente: il malcontento c’è, perché manca un’identità, un atteggiamento più coraggioso, e una proposta di gioco che vada oltre il minimo indispensabile.

DAVIDE NICOLA ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
Cagliari, serve una riflessione sul progetto tecnico
Se un anno fa la salvezza firmata Claudio Ranieri era stata un piccolo capolavoro, oggi non si può parlare di miracolo. Nicola è riuscito, salvo sorprese, a centrare l’obiettivo, ma lo ha fatto senza mai dare alla squadra un’impronta chiara. I tanti esperimenti, l’insistenza su giocatori più votati alla quantità che alla qualità, e l’assenza di un gioco riconoscibile hanno tolto entusiasmo a una piazza passionale come quella cagliaritana.
I 33 punti potrebbero bastare per salvarsi con qualche giornata d’anticipo, e probabilmente molti tifosi firmerebbero ogni anno per una salvezza tranquilla, ma si può e si deve fare di più.
La squadra sembra cullarsi nella mediocrità, senza mai provare a superare i propri limiti. Per questo, a fine stagione, sarà necessario aprire una riflessione profonda sul progetto tecnico: per non rischiare di restare indietro nei prossimi anni, serve pianificare con ambizione e chiarezza.
editoriale
Napoli, è il pareggio della paura

Il Napoli si fa rimontare due volte dal Genoa e perde due punti sull’Inter. Nonostante la serata storta, però, il destino rimane nelle mani degli azzurri.
Il Napoli non risponde alla vittoria dell’Inter sul campo del Torino e si ferma in casa contro il Genoa, facendosi rimontare due volte dal Grifone. I numeri dicono che gli azzurri avrebbero meritato la vittoria, ma serve la lucidità di andare oltre le statistiche e guardare la prestazione complessiva: quella di ieri è stata una partita giocata con paura, con una squadra forse schiacciata dalla pressione degli ultimi giorni.
L’infortunio di Lobotka dopo poco più di cinque minuti ha sicuramente complicato i piani, ma il Napoli è sembrato poco reattivo, poco dinamico, quasi fermo, soprattutto nel primo tempo. Un dato emblematico: il giocatore con più tocchi tra gli azzurri è stato Olivera, da difensore centrale.
Deludente in particolare la catena di destra, di solito la più solida e produttiva: Di Lorenzo, Politano e soprattutto Anguissa, il peggiore in campo, non hanno garantito la qualità e la spinta viste negli ultimi anni. Ma anche gli altri non hanno brillato.
A emergere è stato ancora una volta Scott McTominay che, pur schierato da esterno sinistro nel 4-4-2 disegnato da Conte, ha giocato con lucidità, senza mai fare una scelta banale. Lo scozzese è stato decisivo con due assist, prima per il gol di Lukaku e poi per quello di Raspadori. Ma la sua solidità mentale non è bastata a compensare la fragilità dei compagni.

GIOVANNI DI LORENZO RAMMARICATO ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
I soliti cali dopo il vantaggio
Come già accaduto diverse volte in stagione, dopo il gol del vantaggio il Napoli ha abbassato il baricentro, come se aspettasse la reazione avversaria più per paura che per strategia. Un atteggiamento che spesso ha pagato, ma non ieri, perché il Genoa ha saputo sfruttare al massimo ogni occasione e ogni minima disattenzione degli azzurri.
Anche i cambi di Conte non hanno aiutato: Raspadori, timido nel primo tempo ma in netta crescita dopo il gol del 2-1, è stato sostituito per coprirsi con l’ingresso di Billing, mentre Anguissa, autore forse della sua peggior prestazione stagionale, è rimasto inspiegabilmente in campo fino alla fine.
Politano, completamente stremato, all’84° non è riuscito a ostacolare il cross di Aaron Martin da cui è nato il 2-2, e Conte ha deciso di sostituirlo con Neres solo dopo il pareggio.
Anche l’atmosfera allo stadio era strana: dopo il primo gol del Genoa, il Maradona è rimasto in silenzio fino al 2-1, per poi spegnersi di nuovo dopo il 2-2.
Una serata storta, segnata anche da quella scaramanzia che sembra essersi rotta: molti tifosi si sentivano già campioni d’Italia e avevano iniziato a festeggiare. Persino il gol di testa di Vasquez, il primo subito su questa situazione in campionato, ha avuto un sapore simbolico.

L’ESULTANZA DI DAVID NERES ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
Napoli, adesso servono nervi saldi
Ovviamente nulla è ancora perduto. Il Napoli è sempre a +1 sull’Inter, e tutto dipenderà ancora una volta dagli azzurri. Quella di ieri è stata una serata negativa, forse nata già nei giorni precedenti con tutte le voci che hanno disturbato l’ambiente.
Ora, però, non bisogna lasciarsi travolgere dal panico: il Napoli ha due finali davanti a sé, contro Parma e Cagliari, e con 6 punti lo Scudetto sarebbe matematico, indipendentemente dai risultati dell’Inter.
Conte dovrà ritrovare lucidità nelle scelte e trasmettere alla squadra la calma e la convinzione che ieri sono mancate. Il gruppo ha dimostrato più volte di sapersi rialzare. Ora è il momento di farlo di nuovo.
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